La riforma fallimentare ha riscritto i requisiti di accesso al concordato preventivo, che ora presuppone uno „stato di crisi“ dell'impresa, fenomeno più indefinito dell'insolvenza.
Come è noto, l'istanza di ammissione al concordato deve essere corredata da una relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell'impresa; uno stato analitico ed estimativo delle attività; l'elenco dei creditori con tanto di indicazione dei rispettivi crediti; l'elenco dei titolari di diritti reali o personali sui beni del debitore; il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili.
Proprio in questa relazione può insinuarsi l'artefazione descritta nell'art. 236 L.fall., che prevede due distinte condotte dolose: 1) la falsità finalizzata all'ammissione al concordato; 2) la simulazione di crediti inesistenti destinati ad influire sulla maggioranza dei creditori chiamati ad approvare il concordato.
La norma è formulata in modo impreciso, sicché occorre interpretarla.
Per quanto riguarda la prima ipotesi, secondo la giurisprudenza, ogni operazione che alteri il risultato effettivo della situazione patrimoniale al momento della proposta, concreta il reato. Così l'omessa indicazione di debiti e l'ipervalutazione di immobili consuma il delitto perché comporta una falsa attribuzione di attività.
La seconda condotta si può realizzare anche attraverso l'inserimento mendace di crediti inesistenti nell'elenco che accompagna l’istanza.
Il reato si consuma con la presentazione della domanda di concordato, indipendentemente dalla sua successiva ammissione.
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