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Immagine del redattoreRaffaele Bergaglio

Compliance e sostenibilità: mentre è imminente l’adeguamento ai fattori ESG sospinti dal Green Deal, in Italia ci si interroga sulla valenza dei Modelli organizzativi e dei Sistemi di Whistleblowing

Aggiornamento: 5 giu



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Milano, 7 febbraio 2024


Formatasi oltre oceano, l’onda green ha trasportato con sé i fattori ESG fino a Bruxelles, dove si è innalzata in maniera poderosa, attraversando la pandemia, per poi dirigersi verso i membri dell’Unione. Porterà freschezza e nuove opportunità capaci di dare una svolta ecologica a beneficio di tutti, o sarà una zavorra per tante aziende già gravate dalla selva burocratica? La questione va analizzata avuto riguardo al sistema giuridico di ciascuno stato. Nel caso dell’Italia, l’impatto dovrebbe essere valutato a cospetto di quell’insieme di norme che da tempo hanno già introdotto nel Bel paese strumenti di compliance alquanto pertinenti rispetto alla portata dell'onda.

       Tali iniziative sovranazionali, ormai diffuse anche nell’opinione pubblica, stanno via via consolidando nuove aspettative nei confronti delle imprese, dalle quali alcuni pretendono un’assunzione di responsabilità sempre maggiore nel contesto socio-economico e ambientale, che tenga conto delle ricadute dell’attività imprenditoriale sulla comunità circostante e sull’ambiente. In questa prospettiva, vengono richieste modalità di sviluppo più sostenibili, le quali, secondo il legislatore sovranazionale, dovrebbero tenere in considerazione i fattori ESG ovvero Environmental, Social, Governance, sicché le aziende dovranno adottare piani, procedure o modelli operativi in grado di prevenire e mitigare i rischi legati a condotte potenzialmente lesive di questi fattori.

       Il fattore Ambientale (Environmental) misura l’impatto di un’azienda sull’ambiente, inclusa la gestione delle risorse naturali, l’efficienza energetica, le emissioni di gas serra, la gestione dei rifiuti e il rispetto delle normative ambientali. Il fattore Sociale (Social) riguarda il modo in cui un’azienda si impegna nei confronti delle proprie parti interessate come dipendenti, comunità locali, clienti e fornitori e include aspetti come la diversità e l’inclusione, la sicurezza sul lavoro, la gestione delle relazioni con i fornitori e l’impatto sociale positivo generato. Il fattore Amministrativo (Governance) si riferisce alle pratiche aziendali e ai meccanismi di controllo che influenzano la gestione di un’azienda come la composizione e l’indipendenza del Consiglio di amministrazione, la trasparenza delle informazioni finanziarie, le politiche etiche, l’anticorruzione e la remunerazione dei dirigenti.

        Voci di sostegno sottolineano che l’osservanza dei fattori ESG aiuterà le aziende a rafforzare la loro reputazione presso consumatori e investitori nonché ad accedere con maggiore facilità a finanziamenti.

       Non mancano però le critiche, poiché molti considerano le novità normative una sorta di selva inestricabile di adempimenti, degna della peggior burocrazia, afflittiva e svantaggiosa per le imprese dell’Unione, nell’ottica della concorrenza globale. Si consideri che le aziende dovrebbero farsi parte diligente andando a verificare il rispetto dei parametri ESG dei propri partner commerciali mediante apposite due diligence, a seguito delle quali, dovessero rilevare impatti negativi sull’ambiente o sui diritti umani, dovranno terminare i rapporti con costoro, salvo incorrere in sanzioni. Si è anche sostenuto che sovente le iniziative aziendali ESG sarebbero di mera facciata, volte non già a ridurre la propria impronta ecologica sul pianeta, bensì solo a convincere gli altri in tal senso, senza produrre alcun impatto ambientale o sociale concreto. Le associazioni industriali dei maggiori paesi hanno evidenziato a Bruxelles che la normativa rallenterebbe la crescita e la competitività, soffocando le imprese. L’iniziativa green, tuttavia, procede a vele spiegate.

         Per quanto peculiare, al momento non esistono ancora norme e organismi istituzionali che dettino, regolamentino o sovrintendano ai criteri di misurazione dei tre fattori ESG in azienda, ma le grandi società di consulenza sono già diventate i principali fornitori di rating ESG e offrono svariati servizi nel settore della implementazione di politiche aziendali sostenibili.

       Non spetta agli operatori del diritto valutare le scelte di politica legislativa europea e nazionale, tantomeno la sussistenza di una connessione tra le mutazioni climatiche e le attività economiche sul pianeta. Sono solo le ricadute degli effetti regolatori sul mondo dell’impresa ad interessare, nelle varie sfaccettature che, muovendo da aspetti di compliance, finiscono per coinvolgere diverse branche del diritto, non ultimo quello penale d’impresa, specialmente avuto riguardo ai reati inquadrabili nelle tre categorie citate (ambientali, contro la persona e societari in senso lato) e ai sistemi di prevenzione già esistenti, come i modelli organizzativi previsti dal D.lgs. 231/01 e i sistemi di segnalazione delle infrazioni (Whistleblowing), recentemente interessati da interventi normativi.

        Se fino a poco tempo fa si parlava di sviluppo sostenibile solo con riferimento a quel tipo di finanza agevolata atta a stimolare investimenti privati e pubblici come i Green Bond (obbligazioni la cui emissione è legata al finanziamento di progetti che abbiano un impatto positivo per l’ambiente, come l’efficienza energetica, la produzione di energia da fonti pulite, l’uso sostenibile dei terreni, ecc.), oggi questo fenomeno riguarda da vicino tutte le grandi imprese, ma anche molte PMI, fatta eccezione per le non quotate, non appartenenti a gruppi, secondo particolari criteri (v. infra).

        La tematica ha assunto rilievo sempre più marcato negli indirizzi delle politiche legislative degli Stati dell’Unione, ritenendo che le agevolazioni legate alla svolta green europea rappresentino uno strumento decisivo per promuovere la sostenibilità e la competitività delle attività economiche verso una crescita inclusiva e controllata. In questo modo è accresciuta la consistenza di finanziamenti, bandi (locali, nazionali ed europei) e crediti d’imposta a sostegno della transizione ecologica delle imprese, diversificati per scopi, destinatari e settori d’attività interessati: investimenti a bassi impatti ecologici, transizione sostenibile delle PMI, acquisto o leasing di macchinari, impianti e attrezzature utili a migliorare l’ecosostenibilità dei prodotti e dei processi produttivi, ecc.

       Agevolazioni di notevole portata sono state concesse a tutti i tipi di impresa e di ogni dimensione, secondo quanto previsto dal Temporary framework, emanato dalla Commissione Europea per fronteggiare la crisi pandemica, nella forma del contributo in conto impianti, a copertura di percentuali anche molto elevate delle spese ammissibili. Le percentuali sono determinate in funzione della regione di realizzazione dell’investimento e della dimensione delle imprese beneficiarie. Fra le spese ammesse all’incentivo figurano diverse attività, tra cui la sistemazione del suolo, opere murarie, impianti e attrezzature industriali, programmi informatici, brevetti, licenze, spese per la formazione del personale.

        Muovendo dalla genesi di questa rinnovata tendenza di politica legislativa, si ricorda che il 25 settembre 2015 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottava un nuovo piano per il rilancio delle attività imprenditoriali, meglio noto come ‘Agenda 2030’, imperniato sui cd. OSS (obiettivi di sviluppo sostenibile). L’Agenda si riferiva alle tre citate dimensioni della sostenibilità (ESG), con l’ambizioso intento di adeguare a canoni e precetti della transizione ecologica il libero esplicarsi dell’attività economica pubblica e privata.

       Poco tempo dopo, durante la 21ª Conferenza delle Parti (COP21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), che si è svolta in Francia dal 30 novembre al 12 dicembre 2015, è stato adottato l'Accordo di Parigi, che costituirebbe il risultato di sforzi internazionali per affrontare il cambiamento climatico e stabilire obiettivi vincolanti per la riduzione delle emissioni di gas serra.

      Quattro anni più tardi, la Commissione Europea lanciava il più ampio e ambizioso programma integrato di riforme, investimenti e ricerca mai concepito nel contesto unionale, il Green Deal europeo (COM 2019 (640), che riguarda tutti settori d’impresa, di servizi oltre ad agricoltura e allevamento (questi ultimi, connotati da notevoli agitazioni in questo periodo, insorte in vari stati). Si è così aperto un varco per la germinazione di una serie di strumenti normativi di attuazione, allineati agli obiettivi di sviluppo sostenibile e adottati con il preteso scopo di orientare l’Europa verso un’economia sicura, trasparente e climaticamente neutra.

      Successivamente, con il Bilancio a lungo termine UE 2021-2027 (adottato con Regolamento del Consiglio in data 16 dicembre 2020) è stato istituito un quadro finanziario pluriennale (QFP), ovvero un programma che definisce le risorse finanziarie disponibili nell’Unione per sette anni in svariati settori, al cui interno spiccano quelli rilevanti ai fini ESG, pertanto, ambiente, agricoltura, coesione economica, sociale e territoriale, ricerca e innovazione, difesa, sicurezza, politiche estere e altro ancora.

      Il processo di transizione ecologica necessita di un ingente ammontare di investimenti per essere realizzato. Sicché, anche durante la pandemia, la legislazione europea ha intrapreso interventi di politica economica a sostegno della transizione ambientale, produttiva ed energetica. Di conseguenza, il QFP è stato integrato con il ‘Next Generation EU’, programma d’investimento progettato per affrontare gli impatti economici e sociali della pandemia e il rilancio dell’economia, del valore di circa 806 miliardi di euro, da noi attuato con il noto PNRR. Al tempo stesso, gli autori del piano, nella prospettiva ESG, hanno inteso gettare le basi per rendere le economie e le società dei paesi europei più sostenibili, resilienti e preparate alle sfide e alle opportunità della transizione ecologica.

      Vale quindi la pena dare uno sguardo ad alcuni degli strumenti normativi attuativi del Green Deal e ad altri che dovrebbero essere considerati in tale prospettiva, ivi compresi quelli già esistenti, specie qualora strettamente connessi a questo tema, come i modelli organizzativi e i sistemi di segnalazione delle infrazioni.

 

1. La tassonomia prevista dal Regolamento 2020/852/UE e dal Regolamento Delegato 2023/2486/UE: una classificazione degli investimenti sostenibili volta a favorire la transizione verso un’economia green

         Volendo tratteggiare il quadro di attuazione del Green Deal, si richiama in apertura il Regolamento 2020/852/UE, strumento normativo direttamente applicabile e d’immediata efficacia all'interno degli ordinamenti degli Stati membri, senza che si rendano necessari ulteriori passaggi di recepimento, trasposizione od implementazione del medesimo a livello nazionale. Da esso discende la produzione di effetti giuridici diretti, senza che si possa profilare margine per l’esercizio di potestà discrezionali degli Stati, sicché i regolamenti possono essere invocati dinanzi ai tribunali nazionali in ogni loro parte.

       Il Regolamento, istituendo un sistema di classificazione delle attività economiche ecosostenibili, la cd. tassonomia ambientale delle imprese, delinea un quadro con cui si propone di favorire investimenti consapevoli in determinati settori.Mediante l’elencazione tassonomica il legislatore europeo ha individuato esplicitamente i settori di attività green nel cui ambito è considerato virtuoso investire, con l’obiettivo di reindirizzare gli investimenti verso progetti e attività sostenibili, capaci di favorire la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, l’uso sostenibile e la protezione delle risorse idriche e marine, la transizione verso un'economia circolare, la prevenzione e il controllo dell’inquinamento, la protezione e il ripristino della biodiversità e degli ecosistemi. Per essere eco-compatibile, un’attività dovrà contribuire positivamente ad almeno uno dei sei obiettivi ambientali citati, senza produrre impatti negativi su nessuno degli altri, oltre a dover essere svolta nel rispetto di garanzie sociali minime.

        Nella medesima scia, recentemente è stato emanato il Regolamento Delegato 2023/2486/UE della Commissione del 27 giugno 2023, che integra il regolamento 2020/852/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, fissando i criteri di vaglio tecnico che consentono di determinare a quali condizioni si possa considerare che un’attività economica contribuisca in modo sostanziale all’uso sostenibile e alla protezione delle acque e delle risorse marine, alla transizione verso un’economia circolare, alla prevenzione e alla riduzione dell’inquinamento o alla protezione e al ripristino della biodiversità e degli ecosistemi e se non arreca un danno significativo a nessun altro obiettivo ambientale, e che modifica il regolamento delegato (UE) 2021/2178 per quanto riguarda la comunicazione al pubblico di informazioni specifiche relative a tali attività economiche.

         Si deve rilevare che la citata tassonomia evidenzia intrecci con l’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari già prevista dal Reg. 2088/2019/UE, la quale definiva i requisiti di trasparenza dei cd. «investimenti ecosostenibili». Tale informativa, infatti, è stata fatta oggetto di modifiche dal Reg. 2020/852/UE in commento, sempre con l’obiettivo di promuovere l’afflusso di capitali e di risparmi privati verso attività virtuose dal punto di vista della sostenibilità. In tale prospettiva, i clienti di banche, assicurazioni, fondi d’investimento, enti pensionistici, consulenti finanziari, dovrebbero essere resi edotti in merito alla valutazione dei rischi di sostenibilità adottati dagli operatori finanziari nei propri processi di raccomandazione dei prodotti finanziari; degli impatti che i rischi di sostenibilità potrebbero avere sulla performance dei singoli prodotti finanziari; degli effetti negativi che i prodotti finanziari resi disponibili dagli intermediari potrebbero avere sulla sostenibilità; degli effetti positivi delle attività oggetto d’investimento sugli obiettivi di sostenibilità.

        Da tutto ciò deriva, in buona sostanza, che esistono settori, come ad esempio l’industria petrolifera, la carbon-chimica, gli armamenti, in cui gli intermediari attenti alla sostenibilità non dovrebbero operare, se non con una serie di cautele.

        Nondimeno, da parte di molti, in un momento in cui si vuole raggiungere la sostenibilità ambientale e sociale, ancorché caratterizzato dalla crisi energetica dovuta anche ai recenti eventi bellici, a loro volta beneficiari di supporti in termini di armamenti, ci si chiede se sia concretamente sostenibile ipotizzare l’approvvigionamento energetico europeo, penalizzando o escludendo l'energia ottenuta dalla combustione di alcune fonti fossili, sinora utilizzate per la produzione di elettricità, riscaldamento domestico e industriale, nonché per il trasporto.

          In ogni caso, l’istituzione di questo sistema di classificazione dovrebbe costituire, nella prospettiva del legislatore, l’elemento più importante per fornire a imprese e investitori gli elementi utili per individuare le attività economiche rispettose dell’ambiente.

 

2. La rendicontazione di sostenibilità prevista dalla Corporate Sustainability Reporting Directive2022/2464/UE e i timori legati alla incertezza dei parametri di valutazione del rating ESG

       Stabilite le finalità del Green Deal con la citata tassonomia, si rendeva necessario coniare uno strumento normativo per valutare l’effettiva ottemperanza ai già menzionati obiettivi da parte delle imprese.

        La direttiva 2014/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio aveva modificato la direttiva 2013/34/UE per quanto riguarda la comunicazione di «informazioni di carattere non finanziario» da parte di talune imprese e gruppi di grandi dimensioni. Si è poi ritenuto che l'espressione «rendicontazione di carattere non finanziario» fosse imprecisa e fuorviante, in particolare perché implicherebbe che le informazioni in questione non assumano rilevanza sul piano finanziario. Ritenendo, invece, che sempre più spesso tali informazioni assumono rilevo in tale ambito, si è preferito utilizzare l'espressione «informazioni sulla sostenibilità» anziché «informazioni di carattere non finanziario» (v. Considerando 8 Dir. 2022/2464/UE).

      La più saliente novità nel panorama delle fonti normative dell’Unione, collegata al regolamento sulla tassonomia, è la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) 2022/2464/UE.

       Tenendo conto dell’accennata scelta terminologica, la CSRD ha modificato la Direttiva 2013/34/UE, concernente l’obbligo di comunicazione di informazioni di carattere non finanziario per le imprese di grandi dimensioni. L’intervento integrativo ha esteso l’ambito di applicazione della normativa sulla rendicontazione di carattere non finanziario e lo ha adeguato alla citata tassonomia ambientale delle attività economiche. Più precisamente, completando il quadro sorto con il Reg. 2020/852/UE (di cui si è detto sopra), la CSRD coordina la disciplina informativa sulla sostenibilità con i criteri e gli indici della tassonomia, affinché la rendicontazione delle società obbligate fornisca un’immagine il più possibile attendibile dell’allineamento dell’impresa ai canoni citati.

       Il 2024 segnerà secondo tanti l’ennesimo momento di svolta verso la definitiva trasparenza nell’ambito della sostenibilità imprenditoriale. La direttiva è stata pubblicata il 16.12.2022 e gli stati hanno 18 mesi per recepirla, sicché manca poco alla deadline tracciata per il 6 luglio prossimo. Il Governo ha tempi molto ristretti per predisporre il decreto legislativo delegato e i margini di discrezionalità consentiti dalla direttiva in commento per adeguare il testo normativo nazionale alla specifica realtà imprenditoriale italiana non sono molto ampi.

        Tramite le interpolazioni occorse con la CSRD succitata si prevede l’obbligo di trasparenza in ambito ESG per tutte le imprese che rispondano ad almeno due dei seguenti requisiti (a livello di singola società o di gruppo): più di 250 dipendenti; fatturato superiore a 40 ml €; attivo dello stato patrimoniale superiore a 20 ml €.

        Le imprese che rientrano nei parametri citati dovranno includere nella relazione sulla gestione informazioni necessarie alla comprensione dell’impatto dell’impresa sulle questioni di sostenibilità, nonché informazioni necessarie alla comprensione del modo in cui le questioni di sostenibilità incidono sull’andamento dell’impresa, sui suoi risultati e sulla sua situazione (cd. prospettiva della doppia rilevanza).

         La nota informativa di cui sopra comprende sempre «una breve descrizione del modello e della strategia aziendale dell’impresa», che indica «la resilienza del modello rispetto ai rischi connessi alle questioni di sostenibilità» e le opportunità di business associate al paradigma dell’impresa sostenibile.

       A titolo esemplificativo occorrerà descrivere, tra l’altro, le procedure di dovuta diligenza applicate in azienda per prevenire i principali rischi e impatti negativi (anche potenziali) dell’attività economica o legati alla sua catena del valore (compresi i suoi prodotti e servizi, i suoi rapporti commerciali, la sua catena di fornitura), specificando sempre i passaggi attuati per individuare le informazioni incluse nella relazione sulla gestione.

      Le imprese che soddisferanno i (nuovi) parametri sanciti dalla direttiva dovranno pubblicare una ‘Relazione di sostenibilità’ prodotta secondo standard di rendicontazione rigorosi e verificati da enti esterni (tendenzialmente società di consulenza e revisione).

       In questo modo crescerà il numero dei soggetti che dovranno obbligatoriamente redigere il bilancio di sostenibilità rispetto all’attuale NFRD (Non-Financial Reporting Directive 2014/95/UE sull’informativa non finanziaria delle grandi imprese, che sono enti di interesse pubblico). Si prevede che in Italia esse saranno tra quattro e cinquemila.

       Passando alla trattazione dei «rating ESG», si premette che la locuzione allude ad un giudizio di valutazione sintetico, espresso in caratteri alfa-numerici (es. Nike - ESG risk rating comprhensive —> 18,9 low risk), che certifica la solidità di un titolo, ma anche di una società, di una organizzazione o di un fondo dal punto di vista delle performance ambientali, sociali e di governance (ESG).

         Muovendo dal sostrato nozionistico, occorre dare inquadramento dei «fornitori di rating» e dei «soggetti valutati». «Fornitore di rating ESG» è una persona giuridica la cui attività comprende l'offerta e la distribuzione di rating ESG (o punteggi di sostenibilità) a livello professionale, mentre il «soggetto valutato» è una persona giuridica, uno strumento (o un prodotto) finanziario, un'autorità pubblica o un organismo di diritto pubblico cui è esplicitamente o implicitamente attribuito un rating o punteggio ESG, indipendentemente dal fatto che tale rating sia stato richiesto e indipendentemente dal fatto che la persona giuridica abbia fornito informazioni per tale rating o punteggio ESG.

        Al riguardo alcune domande sorgono spontanee: le agenzie di rating che parametri utilizzano? Si tratta ovunque di criteri uniformi o vale la critica ‘agenzia che vai rating che trovi’? Chi controlla genuinità e rispondenza effettiva delle valutazioni eseguite?

            Attualmente non esiste un quadro normativo dell’Unione Europea per i fornitori di rating ESG. Gli Stati membri non hanno regolamentato in maniera uniforme l’attività delle agenzie di rating e neppure le condizioni alle quali esse forniscono valutazioni sui fattori ambientali sociali e di governance. Eppure, i rating ESG sono destinati produrre impatti sempre più pregnanti sul funzionamento dei mercati (di capitali), sulla fiducia degli investitori nei cd. «prodotti finanziari sostenibili» e più in generale sulle aziende.

        Secondo le previsioni, il mercato dei rating ESG (e dei fornitori di rating) continuerà a crescere seguendo traiettorie esponenziali nei prossimi anni; urgono dunque interventi correttivi che colmino l’attuale vuoto normativo nel panorama europeo.

        Le lacune del mercato dei rating si sostanziano in una carenza di chiarezza e trasparenza sui metodi utilizzati per il calcolo dei punteggi e sulle fonti di derivazione dei dati da parte delle agenzie di rating. I rating ESG, allo stato attuale, non consentono ad utenti, investitori e soggetti valutati di prendere decisioni sufficientemente informate rispetto ai rischi, agli impatti e alle opportunità connesse ai fattori ESG.

       Pertanto, nella rinnovata strategia per la finanza sostenibile (inaugurata come visto a partire dall’Agenda 2030), la Commissione europea si è impegnata a adottare soluzioni per migliorare affidabilità, comparabilità e trasparenza dei ratingESG.

      Uno sguardo agli sviluppi normativi all’orizzonte consente di soffermarsi sulla Proposta di regolamento (del Parlamento Europeo e del Consiglio) sulla trasparenza e sull’integrità delle attività di rating ambientale, sociale e di governance (COM (2023) 314 final).

      La proposta mira a implementare la qualità delle informazioni relative ai rating, da un lato migliorando la trasparenza dei dati e dei metodi su cui si articola il giudizio, dall’altro garantendo una maggior chiarezza sull’attività dei fornitori e sulla prevenzione dei rischi di conflitti di interessi. Tuttavia, la proposta non intende armonizzare i metodi di calcolo dei rating ESG, bensì aumentarne trasparenza e integrazione reciproca. I fornitori manterranno dunque il pieno controllo sui criteri che utilizzano, conservando ampi margini di autonomia nel compimento delle scelte, per garantire che nel mercato ESG siano disponibili approcci distinti attagliati ai diversi settori delle attività economiche.

       Applicato storicamente alle attività di gestione finanziaria, il rating ESG è stato esteso a tutti i tipi di attività (imprenditoriale, banche, enti pubblici, associazioni, scuole, ecc.), ritenendo che ogni entità possa e debba contribuire a salvaguardare un futuro sostenibile. Esso viene elaborato tenuto conto delle più aggiornate risultanze scientifiche, incardinate ai rapporti IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e mediante la raccolta e l’analisi di documenti aziendali, informazioni pubbliche e dati forniti dalle autorità, dai sindacati e dalle ONG, sugli aspetti che riguardano l’ambiente, l’impatto sociale e la governance.

         Per descrivere le proprie azioni nelle tre grandi aree ESG e ottenere così un punteggio elevato, le imprese potranno servirsi di diversi strumenti, tra cui spicca la sopra descritta rendicontazione di sostenibilità. Ovviamente si tratta di un giudizio diverso rispetto a quello utilizzato per i rating tradizionali, perché dovrebbe attestare la solidità di un’impresa sotto il profilo ambientale, sociale e amministrativo, finalizzato a determinarne la sua sostenibilità nel lungo periodo.

        A questo punto, parrebbe ragionevole supporre che indicatori utili possano provenire anche e soprattutto dagli strumenti di compliance introdotti in azienda, e quindi pure dai modelli organizzativi adottati, dai rispettivi protocolli e procedure di prevenzione del rischio nonché dai sistemi di segnalazione delle non conformità e dei fatti illeciti.

        Colpisce dover rilevare che fra gli strumenti già presenti nel panorama normativo attuale, nella prospettiva di aggiudicarsi l’attestazione di sostenibilità dell’impresa (o del titolo, ecc.), per adesso non figurano i modelli organizzativi previsti dal D.lgs. 231/01, espressione di una scelta di governance volontaria, orientata ad un rating di legalità ed etica d’impresa; tantomeno figurano i sistemi di segnalazione delle infrazioni aziendali.

       Tuttavia, appare chiaro che il rating di sostenibilità ESG in Italia dovrebbe marciare di pari passo con il rating di legalità, atteso che gli illeciti che i modelli organizzativi previsti dal D.lgs. 231/01 tendono a prevenire costituiscono al tempo stesso presidi di tutela dei fattori ESG, senza contare che le stesse considerazioni valgono per i sistemi di segnalazione delle infrazioni.

 

3. Le linee guida dell’EBA (European Banking Authority) sulla concessione e il monitoraggio dei prestiti

     Anche nelle più recenti linee guida EBA (Guidelines on Loan Origination and Monitoring), vigenti dal 30.06.2021, in materia di concessione e monitoraggio dei prestiti, la sostenibilità dell’azienda diventa elemento oggetto di valutazione da parte del sistema bancario ai fini dell’analisi del merito creditizio, il che incide non poco sul mondo dell’impresa.

     La triade di obiettivi ESG viene espressamente menzionata agli artt. 56 e 57 delle linee guida EBA. «Gli enti creditizi dovrebbero incorporare i fattori ESG e i rischi ad essi associati nella loro propensione al rischio di credito, nelle politiche di gestione dei rischi e nelle politiche e procedure relative al rischio di credito, adottando un approccio olistico» (art. 56).

       «Gli enti dovrebbero tenere conto dei rischi associati ai fattori ESG per valutare le condizioni finanziarie dei mutuatari, e in particolare del potenziale impatto dei fattori ambientali e del cambiamento climatico, nella loro propensione al rischio di credito e nelle politiche e procedure ad esso relative. I rischi del cambiamento climatico per le performance finanziarie dei clienti possono materializzarsi principalmente sotto forma di rischi fisici, come quelli che derivano dagli effetti tangibili del cambiamento climatico, compresi i rischi di responsabilità civile per aver contribuito al cambiamento climatico stesso, o i rischi di transizione, ad esempio quelli che derivano dalla transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio e resistente ai cambiamenti climatici.

      Inoltre, possono verificarsi altri rischi, quali cambiamenti delle preferenze del mercato e dei consumatori e rischi legali, che potrebbero influire sull’andamento delle attività sottostanti» (art. 57).

 

4. Il Codice di Corporate Governance del 2020

         Anche il nuovo Codice di Autodisciplina delle società quotate (cd. Codice di Corporate Governance 2020) pone la sostenibilità di lungo periodo dell’azienda tra gli obiettivi di gestione strategici che l’organo amministrativo deve perseguire, includendo nelle proprie valutazioni relative alla definizione del livello di rischio accettabile «tutti gli elementi che possono assumere rilievo nell’ottica del successo sostenibile della società».

         Piaccia o no, la tendenza attuale è orientata a ritenere i sistemi di autodisciplina uno strumento di stimolo per il rafforzamento della corporate governance, affidandone la valutazione al mercato. In sostanza si affida all’autonomia privata la valutazione sul grado di compliance delle disposizioni interne di autoregolamentazione. Di conseguenza sarà presumibile una valutazione positiva, intermedia o negativa da parte degli investitori istituzionali anche in ragione del rilevante, medio o insufficiente tasso di adesione alle indicazioni autodisciplinari.

 

5. Le aspettative circa l’incidenza dei modelli di organizzazione e controllo sul rating di sostenibilità ESG

        Certo è che in Italia le imprese che hanno volontariamente deciso di adottare un modello organizzativo ai sensi del D.lgs. 231/01, atto a prevenire i rischi di commissione di reati d’impresa, dovrebbero trovarsi in una posizione di vantaggio, avendo ormai familiarizzato con strumenti normativi che, in qualche modo, si pongono già nella prospettiva auspicata dal Green Deal.

       In linea teorica, dunque, il nostro paese dovrebbe trovarsi in una posizione avanzata rispetto all’impatto che le nuove norme avranno sul mondo dell’impresa, ma questo dipende dal valore che i fornitori del rating attribuiranno a strumenti di compliance come i modelli organizzativi.

       Nessun altro stato europeo, infatti, è dotato di un impianto normativo così completo ed articolato come quello previsto dal D.lgs. 231/01 in tema di responsabilità penale degli enti. Ovviamente, questa posizione di vantaggio vale per quelle persone giuridiche che nel corso dell’ultimo ventennio hanno deciso di introdurre in azienda un modello organizzativo e di gestione del rischio di reati.

      Sarà, pertanto, interessantissimo verificare come i guru dei rating ESG, da identificarsi innanzitutto nelle grandi società di consulenza, valuteranno la pregressa implementazione di un modello organizzativo da parte delle imprese. A rigor di logica, dovrebbe trattarsi di un parametro di notevole importanza nell’accordare il punteggio di sostenibilità. Diversamente opinando ci si troverebbe di fronte ad una inaccettabile sovrapposizione di corpi normativi, indefiniti nei propri perimetri e vessatori nei confronti delle aziende, che si troverebbero di fronte all’adozione di modelli ESG per tutto ciò che non oltrepassa la linea rossa di penale rilevanza, e modelli organizzativi di prevenzione dei reati ai sensi del D.lgs. 231/01.

       A ben vedere, l’insieme di regole proposte dal Green Deal, infatti, è del tutto complementare ed interconnesso con quanto già previsto dal D.lgs. 231/2001, sulla prevenzione della responsabilità da reato delle persone giuridiche. Environmental, Social e Governance sono settori contigui a varie categorie di reati contemplati dal citato corpo normativo (basti pensare ai reati ambientali, ai reati contro la persona commessi in violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro, ai falsi in bilancio e ai fenomeni corruttivi ecc.). D’altra parte, poiché la sanzione penale si pone abitualmente come estrema conseguenza di violazioni che non sempre raggiungono i gradini più elevati della scala di gravità, le regole derivanti dalla CSRD - per come recepite negli stati membri -, andranno a coprire fenomeni (ambientali, sociali, amministrativi) privi di rilevo criminale, ma connotati di valenza socio-economica.

      Per conseguire gli obiettivi di sostenibilità ambientale, sociale e amministrativa, le aziende non potranno dunque esimersi dall’osservanza della normativa CSRD.

     Il D.lgs. 231/2001, che oltre vent’anni fa ha introdotto una nuova forma di responsabilità (penale) a carico delle persone giuridiche, prevede strumenti per andare esenti da contestazioni, che consistono nella efficace implementazione di modelli organizzativi accompagnati dai rispettivi organismi di vigilanza. Tali regole di prevenzione della criminalità d’impresa, sono quindi destinate ad intrecciarsi con le imminenti norme italiane di recepimento della Direttiva n. 2022/2464 UE (CSRD) che conteranno altre regole comportamentali.

       Peraltro, in Italia, l’introduzione di strumenti di compliance come i modelli di prevenzione dei reati previsti dal D.lgs. 231/01, è diventato un requisito sempre più importante nei rapporti con la Pubblica Amministrazione, anche in relazione ai finanziamenti previsti dal piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), programma con cui il governo ha inteso gestire i fondi europei del Next generation Eu (su cui v. introduzione). In tale prospettiva, i modelli comportamentali di prevenzione dei reati e gli organismi di vigilanza contribuiscono al conseguimento del rating di legalità, il quale, nelle gare per le opere pubbliche concernenti la fornitura di beni o servizi, comporta vantaggi competitivi in termini di preferenza in graduatoria o di punteggio, oltre a poter influire sulla valutazione dell’offerta.

      Allo stesso modo, si ritiene, ben presto le imprese affidatarie dovranno dimostrare l’impegno a presentare la rendicontazione non finanziaria sulla sostenibilità sociale e ambientale dei processi produttivi, ovvero un rating di sostenibilità.

     Una buona compliance aziendale dovrebbe supportare l’impresa nelle strategie ESG e in quelle di prevenzione dei reati, individuando i rischi gravanti sull’azienda stessa (gestione dei rifiuti, abusi dei diritti umani, discriminazione sul posto di lavoro, sicurezza dei lavoratori, violazioni fiscali, trattamento dei dati, ecc.) e il loro impatto a livello finanziario, reputazionale e legale.

      In altre parole, il concetto di sostenibilità non può essere affrontato prescindendo dagli organi di compliance aziendale, perché quest’ultima è indispensabile per garantire che le informazioni ESG siano accurate, veritiere e complete, oltre che per verificare l’integrazione degli stessi fattori ESG nelle procedure aziendali.

       Si ricorda che una concreta prevenzione dei rischi di commissione di reati da parte di soggetti che agiscono nelle organizzazioni imprenditoriali, dovrebbe permettere alle società di essere sollevate da responsabilità in sede penale mediante la efficace implementazione di modelli organizzativi, anche in costanza della incriminazione un esponente aziendale.

       L’impulso principale per il legislatore italiano - tanto nel 2001, fase genetica delle norme sui modelli organizzativi, quanto nel successivo ventennio di impetuosa evoluzione normativa - è stato quello proveniente dall’Unione Europea. A partire dal II Protocollo della Convenzione sulla protezione degli interessi finanziari europei (PIF) del 1997, il legislatore si è dimostrato molto solerte nel rispondere alle sollecitazioni sovranazionali, peraltro con un dettaglio ed una incisività normativa che la maggiore parte degli stati membri dell’Unione non conoscono. Infatti, tuttora, l'impianto normativo previsto dal D.lgs. 231/01 non trova corrispondenti, per incisività, complessità e dimensione, nelle legislazioni delle principali economie europee. Da qui deriva anche la difficoltà di alcune multinazionali nel comprendere il nostro sistema e adattare le rispettive procedure.

       Vale la pena di ricordare che tra i reati che maggiormente vengono contestati alle imprese vi sono quelli ambientali, quelli contro la persona commessi in violazione della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro ma anche i reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, reati in materia societaria, corruzioni e altri reati conto la pubblica amministrazione, abusi di mercato e reati tributari. Si tratta all’evidenza di settori fortemente interessati anche dai fattori ESG, sia pure sotto un profilo diverso, che non sfocia per forza in risvolti penali, ancorché dotato di notevole rilevanza sul piano reputazionale.

        Il sistema di controllo interno implementato tramite un modello organizzativo, con l’introduzione di organismi di vigilanza e funzionale alla prevenzione di rischi-reato, dovrebbe impattare inevitabilmente anche sulle attività allineate agli obiettivi ESG, sicché dovrebbe contribuire al perseguimento generale di molti degli obiettivi di sostenibilità.

       Pertanto, i modelli di compliance adottati ai sensi del D.lgs. 231/01 dovrebbero rappresentare un punto di partenza significativo per una governance che intenda imprimere all’azienda obiettivi di sostenibilità anche nella prospettiva ESG. In assenza di una norma specifica, al momento non resta che aspettare quale punteggio le grandi società di consulenza e revisione daranno alla presenza di un modello 231/01 in azienda, il che desta qualche perplessità.

 

6. Whistleblowing tra segnalazioni di violazioni penali e violazioni di fattori ESG

     La Legge 179/2017, regolamentando la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità, con riguardo al settore privato, aveva imposto solo alle organizzazioni che volontariamente avessero scelto di adottare i modelli organizzativi previsti dal D.lgs. 231/01, l'obbligo di implementare canali di segnalazione e di garantire una protezione contro eventuali atti ritorsivi nei confronti di chi avesse fatto emergere violazioni dei modelli o condotte illecite integranti i reati presupposto della responsabilità degli enti. La medesima legge aveva inserito i sistemi di whistleblowing nell’art. 6 del D.lgs. 231/01, sancendo una sorta di armonizzazione ex lege dei sistemi di segnalazione degli illeciti con la disciplina sulla responsabilità da reato delle persone giuridiche. D’altra parte, l’introduzione di un sistema di segnalazione degli illeciti aziendali non poteva che essere incasellato nell’ambito delle norme che quegli illeciti vogliono prevenire.

       Il binomio tra compliance 231 e whistleblowing è stato in parte superato dal nuovo D.lgs. 24/2023 (attuazione della direttiva 2019/1937/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2019, riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione - cd. Decreto Whistleblowing), entrato in vigore il 30 marzo 2023 e operativo dal 15 luglio dello scorso anno.

        Emanato allo scopo di rafforzare la normativa italiana sulla protezione dei whistleblower e offrire loro maggiori tutele, il Decreto Whistleblowing non circoscrive più l'applicazione dell'istituto ai soli enti dotati di un modello organizzativo e alle sole segnalazioni relative ad illeciti o violazioni rilevanti per la responsabilità ex Decreto 231/2001, ma estende l'obbligo di attivare un sistema per segnalare violazioni del diritto nazionale e dell'Unione Europea, oltre che agli enti pubblici, a tutti gli enti privati che nell'ultimo anno, abbiano impiegato la media di almeno 50 lavoratori subordinati con contratti di lavoro a tempo indeterminato o determinato, a prescindere dal settore di appartenenza. Il recente decreto Whistleblowing ha anche incrementato i canali di segnalazione interna ed esterna delle violazioni, prevedendo differenti modalità, scritte e orali, che garantiscono la riservatezza dell’identità del segnalante e del contenuto della segnalazione.

       Per quanto qui rileva, si deve ribadire che i fatti illeciti oggetto delle segnalazioni possono comprendere non solo i reati ma anche altre violazioni aziendali in tema di fattori ESG.

      Peraltro, le segnalazioni del whistleblower potrebbero assolvere ad un compito in più, nel contrastare efficacemente le diffuse pratiche di «greenwashing», necessità indicata come prioritaria sia nel nuovo piano d'azione per l'economia circolare (COM (2020) 98 final dell'11 marzo 2020), sia nella nuova agenda dei consumatori (COM (2020) 696 final del 13 novembre 2020).

     Il termine, nato dalla fusione tra green (verde nel senso di ecologico) e whitewashing («dare la calce», metaforicamente inteso come «nascondere o ripulire»), allude a «comportamenti o attività che fanno credere a clienti o investitori che un’azienda stia facendo, per la protezione dell’ambiente, più di quanto fa in realtà», alterando le informazioni ambientali relative ai propri cicli di produzione, commercializzazione o all’uso finale dei medesimi. Trattasi di condotte raggirabili e distorsive della concorrenza, che minano la tutela dei consumatori e la percezione esterna della reale consistenza dei prodotti e servizi offerti dall’impresa.

      Viene ribadita così la necessità di «consentire ai consumatori di compiere le loro scelte in base a informazioni trasparenti e attendibili sulla sostenibilità, sulla durabilità e sull'impronta di carbonio dei prodotti, sottolineando che la trasparenza del mercato è uno strumento che agevola la diffusione di prodotti a zero emissioni nette con un livello superiore di prestazioni tecnologiche e ambientali».

      Per una regolamentazione di sistema si attende l’apporto della ventura direttiva sulle autodichiarazioni ambientali volontarie (oggi Proposta di direttiva al Parlamento europeo e al Consiglio sull'attestazione e sulla comunicazione delle asserzioni ambientali esplicite, COM (2023) 166 final); le condotte abusive possono nel frattempo trovar argine proprio attraverso la figura del segnalatore e i conseguenti meccanismi di tutela rafforzati dal cd. Decreto Whistleblowing (D.lgs. 24/2023).

     Nel mentre, si avrà modo di osservare se l’implementazione dei sistemi di whistleblowing sarà seguita da un adeguato ‘punteggio’ da parte delle società erogatrici dei rating di sostenibilità.

 

Considerazioni di sintesi

      Le imprese italiane che hanno già efficacemente implementato un modello organizzativo ai sensi del D.lgs. 231/2001 sono sicuramente avvantaggiate rispetto al nuovo approccio imposto dal legislatore europeo con il Green Deal.

      Ciò vale specialmente per quelle aziende che si sono adeguate da molto tempo e che ormai hanno assunto dimestichezza con le regole di compliance entrate in vigore oltre venti anni fa.

      Tuttavia, anche per quelle realtà aziendali che non hanno ancora adottato modelli organizzativi, diviene ormai illogico pensare di uniformarsi limitatamente ad uno solo degli strumenti di compliance, modelli ESG, modelli 231, whistleblowing, atteso che essi sono caratterizzati da aspetti talmente interconnessi, che non avrebbe senso adottare solo alcuni di essi, escludendone altri.

      In particolare, non si vede come un modello organizzativo orientato alla prevenzione dei reati d’impresa, non possa contemplare regole per prevenire anche fenomeni meno gravi, pur rilevanti nella prospettiva ESG. Allo stesso modo, si deve ritenere che un organismo di vigilanza possa vigilare anche sul rispetto di un modello atto a prevenire pure violazioni meno gravi rispetto ai reati, ancorché di rilievo ai fini ESG. Parimenti, un sistema di whistleblowing dovrebbe funzionare per segnalare reati ma anche altre violazioni contemplate dai fattori ESG.

       Considerazioni analoghe potrebbero essere svolte con riferimento ad altri corpi normativi, basti pensare alla legislazione attinente alla sicurezza sul lavoro, quanto mai stringente in Italia, la quale dovrebbe avere un riverbero positivo rispetto al fattore social, laddove l’impresa sia conforme a tutti i requisiti presiti dal D.lgs. 81/2008.

       L’auspicio è che di tutto ciò venga tenuto conto in sede di attuazione delle direttive e da parte dei fornitori di rating di sostenibilità in sede di assegnazione dei punteggi: da un lato si dovrebbe assolutamente evitare l’accatastamento di corpi normativi tendenti a sovrapporsi in determinate aree, onde il legislatore delegato dovrebbe tener conto delle norme esistenti, rilevanti sin d’ora in relazione ai fattori ESG; dall’altro i fornitori di rating di sostenibilità dovrebbero aumentare il punteggio delle imprese virtuose, già dotate di strumenti di compliance adeguati o comunque pertinenti rispetto ai predetti fattori.

 

 

#CSRD 2022/2464/UE

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