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Immagine del redattoreRaffaele Bergaglio

Confini dell’obbligo di vigilanza, concetto di abnormità della condotta, accertamento della colpa di organizzazione: un’innovativa sentenza (Cass. pen. 4°, n. 51455/2023)


INDICE

1. I confini dell’obbligo di vigilanza del datore di lavoro nei confronti del preposto

1.1. Il concetto di condotta abnorme del dipendente quale esimente della responsabilità datoriale

2. La colpa di organizzazione e gli errori in diritto commessi nell’accertamento della responsabilità della Srl

2.1. La sussistenza del reato presupposto

2.2. La colpa di organizzazione

2.3. L’interesse e il vantaggio per l’ente nei reati colposi

3. Considerazioni di sintesi



di Raffaele Bergaglio, avvocato penalista in Milano



Nel corso di attività di disboscamento in un pendio adiacente ad un impianto fotovoltaico in provincia di Pisa, un addetto al taglio delle piante veniva travolto da tronchi e ramaglie non raccolti in precedenza, che rotolando verso valle ne causavano altresì la precipitazione da un muro di quasi quattro metri cagionandone il decesso.

Per tale ragione venivano tratti a giudizio e condannati per omicidio colposo il datore di lavoro dell’operaio deceduto, il responsabile di cantiere, un caposquadra-preposto nonché la Srl, quale persona giuridica. Il ricorso per cassazione in commento è proposto unicamente dal datore di lavoro e dall’impresa ritenuta responsabile ai sensi del D.lgs. 231/01; decreto, si ricorda, che disciplina la responsabilità delle persone giuridiche, dipendente dal reato commesso dalla persona fisica, dirigente o sottoposto, e che dal 2007 prevede sanzioni a carico dell’ente per i reati di omicidio e lesioni colpose, consumati al suo interno tramite violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro.

Al datore di lavoro veniva contestato di non aver delegato ad alcuno le funzioni di addetto alla materia antinfortunistica e di responsabile della sicurezza dei luoghi di lavoro; di non aver curato l’organizzazione del lavoro dei dipendenti; di aver omesso ogni controllo sul rispetto delle norme di sicurezza; di non aver provveduto alla adeguata formazione degli operai.

Alla società, pur avendo formalmente adottato i presidi previsti dalla normativa in materia di sicurezza e compliance aziendale ed avendo nominato i responsabili alla sua attuazione, veniva rimproverato di essersi dotata di una struttura gestionale ed organizzativa inadeguata rispetto agli obiettivi previsti dai presidi in materia di sicurezza e di gestione aziendale.

La sentenza in commento, che si distingue per un’impostazione particolarmente garantista, nell’annullare con rinvio alla Corte d’Appello di Firenze, traccia i confini del dovere di vigilanza del datore di lavoro e delimita la portata della colpa di organizzazione, ascritta erroneamente alla persona giuridica. Inoltre, dopo aver svolto considerazioni sull’onere della prova, fissa alcuni punti fermi sulla tanto invocata (spesso a sproposito) abnormità della condotta del lavoratore infortunato, idonea di escludere la responsabilità datoriale.


1. I confini dell’obbligo di vigilanza del datore di lavoro nei confronti del preposto

I giudici di legittimità prendono le mosse da un principio generale derivante dall’art. 18 del D.lgs. 81/2008 (TUSL), qual è il dovere di vigilanza del datore di lavoro nei confronti di tutti i suoi sottoposti, siano essi delegati, preposti, capi squadra, operai più o meno specializzati rispetto alle mansioni svolte, spiegando che le modalità attraverso le quali esercitare tale dovere non sono specificamente definite dal legislatore, sicché esse devono essere rimesse all’organizzazione aziendale, che dovrà conformarle in maniera adeguata in base alle situazioni che di volta in volta si presentano.

Si afferma che la stessa previsione di una necessaria articolazione di ruoli e funzioni è implicitamente rivelatrice del fatto che il controllo richiesto al datore di lavoro non possa intendersi personale e quotidiano e che, ogniqualvolta le dimensioni dell’impresa non consentano un controllo diretto, ci si affidi a report, controlli a campione e quant’altro la scienza dell’organizzazione segnali come idoneo a tale scopo.

D’altra parte, se così non fosse, si rischierebbe di pretendere una tanto assurda quanto antieconomica moltiplicazione delle posizioni lavorative, dovendosi istituire un controllore capace di sorvegliare (si tenga altresì conto di tutte le limitazioni legate al controllo a distanza) ogni attività svolta dai soggetti operativi nel proprio campo visivo, salvo istituirne altri laddove l’orizzonte di osservazione dei primi non possa giungere, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero.

Ciò premesso, occorre chiedersi se sia legittimo ragionare in senso diametralmente opposto, vale a dire se una delega validamente conferita e/o una nomina di preposti adeguatamente formati sia sufficiente a sollevare il datore da qualsiasi responsabilità o se una simile conclusione, forse, condurrebbe a conclusioni ancor più assurde.

Nel caso di specie, giustamente i giudici di legittimità affermano che in capo al datore di lavoro permane comunque il dovere di assicurarsi che il preposto, vigilando a propria volta sugli altri lavoratori, si attenga alle disposizioni di legge nonché a quelle eventualmente impartitegli. Diversamente opinando, si dovrebbe ritenere che il datore di lavoro risponda dell’illecito colposo soltanto qualora non abbia adempiuto ai doveri di formazione e informazione del preposto e/o del delegato, il quale, a propria volta consenta lavorazioni pericolose o addirittura prassi lavorative non conformi, foriere di rischi, il che non pare accettabile.

La sentenza qui in commento contiene un’articolata dissertazione sui limiti dell’obbligo di vigilanza.

Da tempo la giurisprudenza ha preso atto dell’impossibilità che il titolare formale degli innumerevoli obblighi in materia di sicurezza possa integralmente adempiervi personalmente, assumendo come essenziale per il corretto esercizio dell’attività d’impresa la presenza di centri intermedi di imputazione della responsabilità, a partire dalla nomina di preposti e dalla delega di funzioni ex art. 16, D.lgs. 81/2008.

Sulla base di tale assunto, nella sentenza si sostiene che il datore di lavoro possa assolvere all’obbligo di vigilare sull’osservanza delle misure di prevenzione degli infortuni, limitandosi ad adottare le procedure e gli strumenti che gli consentano di conoscere le attività lavorative effettivamente svolte e le loro concrete modalità esecutive. Pertanto, si stabilisce che “il controllo richiesto al datore di lavoro non è personale e quotidiano”, sicché “ogni volta che le dimensioni dell’impresa non consentano un controllo diretto [esso] è affidato a procedure: report, controlli a campione, istituzione di ruoli dirigenziali e quanto altro la scienza dell’organizzazione segnali come idoneo allo scopo nello specifico contesto”.

Il ragionamento della Corte fa riferimento implicito alle grandi imprese, all’interno delle quali non è concretamente ipotizzabile una forma di vigilanza pedissequa, sennonché si deve ritenere che, per i supremi giudici, nulla impedisca di applicare tale principio anche a contesti minori, posto che l’infortunio oggetto della pronuncia in commento non sembra essersi verificato in realtà aziendali di imponenti dimensioni.

Nel caso in esame, l’organizzazione predisposta dal datore di lavoro per le attività di disboscamento “aveva previsto articolazioni funzionali per lo svolgimento i dei lavori in quel cantiere” e “contemplava un responsabile di cantiere … e un caposquadra-preposto”, ma non risulta essere stata conferita alcuna delega. La Corte, tuttavia, prende lo spunto dalla disciplina prevista per i garanti a titolo derivato e, in particolare, da quanto previsto in tema di delega di funzioni dall’art. 16 del TUSL, per avallare il proprio ragionamento sul perimetro dell’obbligo di vigilanza sul preposto, che non può coprire perennemente ogni dettaglio.

La motivazione cita altra giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, dalla delega funzionale di cui dall’art. 16 del D.lgs. 81/2008 “discende che l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite non impone ‘la concreta, minuta conformazione delle singole lavorazioni - che la legge affida al garante - concernendo invece la correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato; ne consegue che l’obbligo di vigilanza del delegante è distinto da quello del delegato - al quale vengono trasferite le competenze afferenti alla gestione del rischio lavorativo - e non impone il controllo, momento per momento, delle modalità di svolgimento delle singole lavorazioni’ (Sez. 4, n. 22837 del 21/04/2016, Rv. 267319)”.

In altre parole, in assenza di una norma che delimiti il dovere di vigilanza del datore di lavoro rispetto ai compiti attribuiti al dipendente preposto, soggetto che ricopre una posizione di garanzia a titolo originario, poiché prevista dalla legge (artt. 299 e 2, D.lgs. 81/2008), i giudici di legittimità hanno mutuato principi stabiliti in un’area contigua, quella riguardante il delegato, che è un garante a titolo derivato (art. 16), applicando i principi giurisprudenziali formatasi a tale riguardo.

Nel dettaglio, i giudici di legittimità rilevano che il datore di lavoro, invero, aveva provveduto ad elaborare il documento di valutazione dei rischi (DVR) e aveva redatto il piano operativo di sicurezza (POS), in relazione al tipo di lavori da svolgere, articolando diverse funzioni per il corretto svolgimento dei lavori all’interno del cantiere, ragion per cui non si poteva muovere alcun rimprovero a costui per l’attività di vigilanza concretamente svolta sul responsabile di cantiere e sul caposquadra-preposto da lui nominati.

Si tratta di un ragionamento garantista e di buon senso, che in sede d’interpretazione va a colmare una lacuna normativa, impedendo da un lato che un obbligo di alta vigilanza, da intendersi in chiave di supervisione, si tramuti in una sorta di “marcatura a uomo” del dipendente; dall’altro, impedendo di esonerare il datore da qualsiasi obbligo di verifica sulle posizioni di garanzia secondarie, originarie o derivate, ribadendo obblighi ben precisi a suo carico.

Due fattori estremamente connessi tra loro devono ancora essere evidenziati. Nella fattispecie oggetto di annullamento con rinvio da parte della Cassazione, in primo luogo si scrive che era emersa l’instaurazione di una prassi lavorativa contraria alle disposizioni impartite. Benché la sentenza lo dia per scontato, tale dato processuale dovrebbe essere messo in relazione al fatto che le lavorazioni che hanno provocato l’incidente sul lavoro non avvenivano all’interno delle mura aziendali, sotto l’occhio vigile del datore, bensì in un sito boschivo esterno.

Da quanto sopra si può ricavare che l’instaurazione di una “prassi” impone di pensare ad una condotta, attiva od omissiva, ripetuta nel tempo, che nel caso in esame è probabilmente consistita nel mancato accatastamento e messa in sicurezza dei tronchi abbattuti.

La conseguenza, a rigor di logica, è che trattandosi di violazioni di regole poste a tutela della sicurezza sul lavoro, continuate nel tempo, anche una vigilanza esercitata in maniera meno pregnante avrebbe in qualche modo potuto rilevare le violazioni pericolose per la salute degli operatori a maggior ragione poiché ripetute nel tempo. In questa prospettiva si pongono numerosi precedenti giurisprudenziali secondo cui, qualora nell’esercizio di attività lavorative si formi, con il consenso del preposto, una prassi illecita, in caso di infortunio la condotta del datore che abbia omesso la dovuta sorveglianza integra il reato colposo (Cass. pen. 3.5.2029, n. 18326, Cass. pen. 28.2.2019 n. 8774; Cass. pen. 1.3.2029, n. 8946; Cass. pen. 23.1.2029, n. 3217).

Nondimeno, nel caso di specie, trattandosi di prassi verosimilmente limitata ad un paio di episodi, del cui effettivo consolidamento non è emersa alcuna prova di conoscibilità da parte del datore (onde, forse, non sarebbe corretto parlare di prassi), la Corte ha ritenuto che «non è ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo della esigibilità del comportamento dovuto omesso».

Per giunta, viene naturale osservare che le attività di disboscamento, per loro natura non vengono svolte sotto gli occhi datoriali all’interno del capannone che tipicamente ospita le attività d’impresa (si pensi ad una fabbrica), bensì in areali boschivi anche distanti, situati talvolta in località non agevoli da raggiungere. Trattandosi di attività alle quali il datore di lavoro ben potrebbe scegliere di non partecipare fisicamente, non è possibile pretendere l’espletamento di attività di vigilanza ed organizzazione del lavoro diverse da quelle poste in essere nel caso concreto.

Infine, la sentenza, nell’elencare gli elementi sintomatici della delimitazione degli obblighi di vigilanza del datore di lavoro, richiama gli artt. 16 c. 3 e 30 c. 4 del D.lgs. 81/2008, in tema di delega di funzioni in relazione ai modelli organizzativi, ritenuta la vicinanza teorica sotto il profilo giuridico-strutturale.

Per l’art. 16, infatti, “la delega di funzioni non esclude l'obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite.

La vigilanza si esplica anche attraverso i sistemi di verifica e controllo di cui all'articolo 30, comma 4”, il che significa che un idoneo modello organizzativo, efficacemente attuato, potrebbe esso stesso, con tutti i suoi strumenti attuativi, sostituirsi alle attività di vigilanza datoriali. Secondo la norma appena citata, infatti, “Il modello organizzativo deve altresì prevedere un idoneo sistema di controllo sull'attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate. Il riesame e l'eventuale modifica del modello organizzativo devono essere adottati, quando siano scoperte violazioni significative delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all'igiene sul lavoro, ovvero in occasione di mutamenti nell'organizzazione e nell'attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico”.

In sintesi, secondo il percorso interpretativo seguito dalla Corte, se l’attività di vigilanza è lecitamente fattibile anche tramite implementazione di un modello organizzativo previsto dal D.lgs. 231/01, sia pure sulla base di determinati requisiti, che prevedono una serie di procedure ben precise, che devono essere attuate, non avrebbe senso pretendere che l’attività di vigilanza del datore sul preposto si estenda alla «concreta, minuta conformazione delle singole lavorazioni … concernendo, invece, la correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato».

Sin qui la parte dedicata ai principi di diritto della pronuncia inerente alla persona fisica, che, mutando ragionamenti da altre parti del D.lgs. 81/2008, ha il pregio di offrire una visione equilibrata in ordine al perimetro dell’obbligo di vigilanza del datore sul preposto, in assenza di indicazioni normative precise.

Per completezza, si segnala che la sentenza tratta altresì una serie di profili di manifesta illogicità, contraddittorietà e carenza di motivazione della pronuncia d’appello.

In particolare, in assenza di motivazioni specifiche al riguardo, non sarebbe dato comprendersi da dove si ricavi che il datore di lavoro avrebbe omesso di vigilare sull’operato del responsabile di cantiere e sul caposquadra-preposto, se non ricavandolo apoditticamente dalla mera verificazione dell’evento.


1.1. Il concetto di condotta abnorme del dipendente quale esimente della responsabilità datoriale

Sempre più spesso nei processi per reati colposi si vede impostare la strategia difensiva del datore di lavoro o di altro soggetto apicale aggrappandosi al concetto di abnormità della condotta dell’operaio infortunatosi, invocando una atipicità manifesta del suo agire, tale da interrompere il nesso causale con l’evento.

Anche nel caso in esame, i giudici di legittimità si sono soffermati incidentalmente sulla condotta del lavoratore, che il ricorrente ha ritenuto idonea ad interrompere il nesso causale tra le condotte del gestore del rischio (datore di lavoro) e l’evento verificatosi.

Ribadendo un proprio orientamento, i giudici di legittimità hanno stabilito che il nesso eziologico viene interrotto allorquando la causa sopravvenuta inneschi un nuovo e del tutto eccentrico rischio rispetto a quello originario, attivato dalla prima condotta. Secondo tale impostazione, la causa interruttiva non può rinvenirsi nel comportamento imprevedibile o esorbitante del lavoratore infortunato, bensì quell’azione od omissione che innesta nel decorso causale un rischio nuovo od eccentrico rispetto a quello affidato al soggetto della cui responsabilità è garante il datore di lavoro (Sez. 4, n. 15124 del 23/12/2016, dep. 2017; sez. 4, n. 7012 del 23/11/2022, dep. 2023).

Vale la pena di ricordare che la giurisprudenza sopra citata, oltre alla evoluzione normativa in materia di tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, ha previsto una responsabilizzazione del lavoratore, assegnandogli una parte attiva nella tutela della salute e della sicurezza di sé stesso e degli altri soggetti presenti nel luogo di lavoro, passando da un modello normativo iperprotettivo ad un modello di disciplina compartecipato della sicurezza  (cfr. art. 20 D.lgs. 81/2008).

Nel caso di specie è stato ritenuto che l’imprudenza da addebitare al lavoratore deceduto sia da ritenersi direttamente correlata con le mansioni affidatigli e al contesto nel quale egli lavorava, sicché la condotta da costui posta in essere ne risultava un effetto diretto e pertanto non idonea ad escludere la responsabilità del datore di lavoro per l’evento verificatosi. In altre parole, non è stata prospettata una condotta dell’operaio capace di interrompere il nesso causale tra l’azione o l’omissione del datore di lavoro e l’evento verificatosi in quanto imprevedibile ed esorbitante rispetto alle mansioni affidatigli.

Costui, infatti, è stato travolto dal rotolamento di tronchi e sbalzato da un muro in un contesto in cui erano in corso attività di disboscamento, il che non configura una condotta imprevedibile ed esorbitante rispetto alle mansioni attribuitegli, essendo sin troppo facile prevedere che i tronchi possano rotolare giù da un pendio e che sia possibile cadere da un muro, non dotato di protezioni, situato nelle vicinanze. Diverso sarebbe stato se questi, nel corso delle attività boschive, di propria iniziativa, avesse deciso di affrontare una vipera, un cinghiale o altro animale selvatico avvistato nel bosco teatro del sinistro, procurandosi lesioni letali.

Peraltro, sul piano processuale, la decisione correttamente ritiene inammissibile tale doglianza, poiché nei precedenti gradi di giudizio il profilo di abnormità non era mai stato sollevato.


2. La colpa di organizzazione e gli errori in diritto commessi nell’accertamento della responsabilità della Srl

La sentenza in commento si distingue anche per aver evidenziato coraggiosamente alcuni aspetti rilevanti in materia di responsabilità penale delle imprese. Nel caso di specie, infatti, era stata tratta a giudizio anche la Srl per il reato di cui all’art. 25 septies, D.lgs. 231/01, che prevede una sanzione di mille quote (da un minimo di 258 ad un massimo di 1.549 euro ciascuna) a carico della società per il reato di omicidio colposo.

Dapprima vengono svolte alcune considerazioni di principio su questo tipo di responsabilità, formalmente definita dall’art. 1 D.lgs. 231/2001 “responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato”.

In particolare, si ribadisce che l’illecito previsto dal D.lgs. 231/2001 è una fattispecie complessa, composta dal reato presupposto, dalla colpa di organizzazione e dall’interesse o vantaggio dell’ente rispetto alla commissione del reato. Vale quindi la pena di ripercorrere le osservazioni della Corte sui singoli requisiti.


2.1. La sussistenza del reato presupposto

In linea generale, per quanto concerne la sussistenza del reato presupposto, occorre ricordare che l’assoluzione della persona fisica comporterebbe automaticamente il proscioglimento dell’ente, senza contare, prim’ancora, che l’assenza di imputazioni alla persona fisica esponente dell’ente non renderebbe neppure ipotizzabile l’incolpazione della persona giuridica e il suo coinvolgimento nel procedimento.

In questo caso, tuttavia, dalla lettura delle motivazione, si apprende che per i fatti verificatisi in quel contesto di disboscamento, oltre al legale rappresentante oggetto della presente pronuncia, erano stati tratti a giudizio anche un responsabile di cantiere e un caposquadra-preposto, entrambi “condannati per non avere correttamente adempiuto agli obblighi che rispettivamente li gravavano in ragione di tali ruoli”, sicché la presenza accertata giudizialmente di un reato presupposto, legittima palesemente l’incolpazione ai sensi del D.lgs. 231/01, fermo restando che tutt’altra cosa è la sua condanna, giustamente annullata dalla Cassazione per le ragioni di seguito esposte.


2.2. La colpa di organizzazione

Con riferimento alla colpa di organizzazione, la sentenza precisa che essa va intesa “in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli”. A scanso di equivoci in questa materia, si fa presente che il riferimento della sentenza non è da intendersi al DVR di cui al D.lgs. 81/2008, bensì ai modelli organizzativi previsti dal D.lgs. 231/01.

Valentemente, poi, la Corte ribadisce che la mancanza del modello organizzativo ai sensi del D .lgs 231/01 non comporta alcun automatismo, potendo questa carenza essere al più uno degli elementi di prova ovvero una circostanza atta a dimostrare la sussistenza della colpa di organizzazione. Il ragionamento appare corretto, atteso che è pur vero che la presenza di un modello idoneo, efficacemente attuato, possa assumere rilevanza esimente della responsabilità dipendente da reato della società, anche di fronte all’affermazione della responsabilità della persona fisica per lo stesso fatto, ma questo non significa che la sua assenza o la sua inidoneità comporti automaticamente la responsabilità dell’impresa.

D’altra parte, osservano i giudici di legittimità, “il verificarsi del reato non implica ex se l’inidoneità o l’inefficace attuazione del modello organizzativo che sia stato adottato dall’ente”, la quale va evidentemente dimostrata insieme alla sua rilevanza causale rispetto all’evento verificatosi.

La decisione in commento, inoltre, nel censurare la “indebita sovrapposizione dei piani” operata dai giudici di merito, al tempo stesso sviluppa alcune argomentazioni sul metodo di accertamento di questa peculiare forma di responsabilità. In particolare, annulla le decisioni di merito laddove compiono un salto logico evidente “avendo trattato dapprima della responsabilità dell’ente e poi di quella delle persone fisiche”, il che costituisce un errore metodologico, potendosi accertare la responsabilità della persona giuridica solo dopo l’accertamento di quella attribuita alla persona fisica, come si è detto sopra. Il ragionamento è senz’altro coerente sul piano metodologico, anche se nel caso in questione, bisogna ricordare che per gli stessi fatti erano stati condannati altri due soggetti facenti capo all’impresa.

Sul piano sistematico, viene evidenziato che “il modello organizzativo non coincide con il sistema di gestione della sicurezza del lavoro incentrato sul documento di valutazione dei rischi di cui agli art. 17, 18, 28 e 29 D.lgs. n. 81/2008”. Si tratta, infatti, di due strumenti diversi, che invero potrebbero essere posti in un rapporto di continenza.

La sentenza spiega che mentre il documento di valutazione dei rischi “individua i rischi implicati dalle attività lavorative e determina le misure atte a eliminarli o ridurli, il modello di organizzazione previsto del decreto 231 è strumento di governo del rischio di commissione di reati”, da intendersi riferito a tutti i reati contemplati del predetto decreto e non solo quelli colposi, previsti a tutela della incolumità sul luogo di lavoro.

Dunque vengono rappresentati due strumenti di cui uno, il modello di organizzazione e gestione previsto dal D.lgs. 231/01, ha una portata assai più generale ed onnicomprensiva, finalizzata alla prevenzione di tutti i rischi connessi alla eventuale consumazione di reati d’impresa, ivi compresi i reati colposi derivanti dalla violazione di norme sulla sicurezza sul lavoro; l’altro, il documento di valutazione dei rischi previsto dal D.lgs. 81/2008, che costituisce uno strumento di prevenzione molto più specifico, poiché atto a prevenire esclusivamente le conseguenze derivanti dal rischio di determinate lavorazioni rispetto alla incolumità delle persone ivi addette.

I due strumenti si trovano pertanto in un rapporto teleologico, sennonché si deve constatare che nella prassi aziendale tali mezzi di governo del rischio d’impresa, spesso vengono trattati in maniera del tutto distinta, senza neppure prevedere rinvii o formule di ragguaglio, come se non c’entrassero nulla l’uno con l’altro, il che è piuttosto sorprendente qualora si ricordi che si tratta di previsioni normative in vigore da molto tempo.

L’impressione, spesso, è che i diversi professionisti della prevenzione dei rischi, non si interfaccino adeguatamente tra loro, così da interpolare le procedure aziendali in modo armonico ed efficace. Per intendersi, a livello pratico ed esemplificativo, gli esponenti delle professioni legali, ai quali solitamente viene commissionata la redazione del modello organizzativo dell’impresa ai sensi del D.lgs. 231/01, sovente sembrano non tenere conto di quanto scritto da ingegneri ed altri esponenti delle professioni tecnico-scientifiche nella redazione del documento di valutazione dei rischi e delle procedure prevenzionistiche aziendali poste a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

Con riferimento al lavoratore deceduto, pare doversi comprendere dalla motivazione in commento che, costatata la presenza di un valido documento di valutazione dei rischi ai sensi del D.lgs. 81/2008, idoneo a prevenire i pericoli per l’incolumità derivanti dalle operazioni di disboscamento, non avrebbe senso andare ad accertare la colpa di organizzazione sulla base della presenza e della idoneità del modello organizzativo previsto dal D.lgs. 231/2001, posto che l’applicazione puntuale del DVR, del POS e di tutte le procedure di sicurezza avrebbe da sola consentito di prevenire la consumazione del reato colposo verificatosi.

Sempre in relazione alla colpa di organizzazione, riscontrata dai giudici di merito, la Corte suprema muove censure anche sotto il profilo della logicità della motivazione, laddove la sentenza annullata sovrappone erroneamente i compiti della persona fisica a quelli della persona giuridica, assimilando l’ente al datore di lavoro.

Secondo i giudici di legittimità, “edificare la responsabilità dell’ente su condotte che sono riferibili, in astratto prima ancora che in concreto, esclusivamente alla persona fisica rappresenta un errore giuridico”. In particolare, vengono sottoposti a revisione critica alcuni passaggi della sentenza impugnata laddove:

  • Dopo aver premesso che l’amministrazione aveva nominato figure precise con relative mansioni, tanto che il tragico evento si sarebbe verificato per la violazione dei doveri conferiti al responsabile di cantiere e al caposquadra-preposto, si afferma che le trasgressioni cautelari sarebbero state commesse da uno dei soggetti condannati nel proprio interesse, salvo poi concludere ravvisando un interesse dell’ente.

  • Assimila il datore di lavoro (con tutte le su implicazioni previste dal D.lgs. 81/2008 e non solo) con l’ente, il che costituisce una scelta sbagliata, poiché qualsiasi accertata omissione nello svolgimento di compiti espressamente assegnati a determinati soggetti, nel caso di specie lavori di potatura con la relativa programmazione, non può automaticamente essere attribuita all’impresa in assenza di carenze organizzative causalmente ricollegate, così come la presenza di macchinari non autorizzati.

  • La sentenza di primo grado, dopo un’ampia ricostruzione di quanto accaduto, conclude che sebbene l’ente si fosse dotato di tutti i documenti previsti per legge ai fini della prevenzione del rischio e indicato i soggetti responsabili della loro attuazione, le misure adottate sarebbero state del tutto carenti ed inadeguate per far fronte alle singole situazioni di pericolo che avrebbero potuto presentarsi di volta in volta e che le scelte effettivamente adottate dalla società erano invero finalizzate a privilegiare le esigenze produttive e di profitto con la minimizzazione dei costi. Il ragionamento, in effetti, appare contraddittorio. Per giunta la sentenza sottolinea come tale conclusione del giudice di prime cure, abbia confuso gli obblighi facenti capo al datore di lavoro inteso come persona fisica con quelli legati alla colpa d’organizzazione, che ricadono sulla persona giuridica.

Pertanto, con riferimento alla colpa di organizzazione, la Corte di Cassazione evidenzia come essa non debba essere confusa con l’omissione di cautele spettanti al datore di lavoro persona fisica, trattandosi di due entità separate in termini giuridici.


2.3. L’interesse e il vantaggio per l’ente nei reati colposi

Il terzo ed ultimo requisito per l’accertamento della responsabilità dell’ente, oggetto di approfondimento nella sentenza in commento, è il concetto di interesse o vantaggio dell’ente, ottenuto dalla commissione del reato (cfr. art. 5 D.lgs. 231/2001).

Al riguardo, giustamente la sentenza premette che “la fattispecie di illecito dell’ente presuppone una relazione funzionale ricorrente tra reo ed ente ed altresì una relazione teleologica tra reato ed ente, ricorrente quando il primo è stato commesso nell’interesse del secondo o questo ne ha tratto vantaggio”. Questo significa che «il legislatore nazionale ha ritenuto non sufficiente il mero rapporto di immedesimazione organica», per configurare la responsabilità della persona giuridica, occorrendo dimostrare altresì che il suo esponente, apicale o sottoposto, abbia agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Pertanto, la motivazione sottolinea che per poter configurare una responsabilità ex D.lgs. 231/01 a carico della società, il reato commesso dal soggetto incardinato nell’organizzazione aziendale non deve essere commesso per fini propri, che potrebbero talvolta addirittura essere in contrasto con quelli dell’ente, bensì per apportare utilità all’ente di appartenenza.

Ciò premesso, i giudici di legittimità si soffermano sulle modalità di accertamento dell’interesse e del vantaggio per l’ente, andando a circoscrivere meglio il concetto.

Ancora di recente si era affermato che «La responsabilità amministrativa dell'ente non può essere esclusa in considerazione dell'esiguità del vantaggio o della scarsa consistenza dell'interesse perseguito, in quanto anche la mancata adozione di cautele comportanti limitati risparmi di spesa può essere causa di reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica» (Cass. pen., sez. III, 12.07.2023, n. 39129). In tale prospettiva si era sostenuto che l'interesse e/o il vantaggio vanno letti, nella prospettiva patrimoniale dell'ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza ovvero come incremento economico conseguente all'incremento della produttività non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale e la riduzione dei tempi di lavoro. In questi termini si era espressa la quarta sezione della Cassazione, (24.01.2019, n. 16598), ribadendo come in tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi commessi in violazione della normativa antinfortunistica, il risparmio in favore dell'impresa, nel quale si concretizzano i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall'interesse e dal vantaggio, può consistere anche nella sola riduzione dei tempi di lavorazione (in tal senso Cass. pen. III, 16.3.2023, n. 26805; Cass. pen. IV, 24.9.2019, n. 43656, in Guida dir., 2020, 70, p. 2; Cass. pen. IV, 19.5.2016, n. 31210, ivi, 2016, p. 39, 68; Cass. pen. IV, 19.2.2015, n. 18073, ivi, 2015, pp. 25 e 96).

Svariate pronunce della Cassazione avevano interpretato in modo estensivo anche il concetto di sistematicità della violazione, affermando che l’interesse dell'ente può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata, allorché altre evidenze fattuali dimostrino tale collegamento finalistico, così neutralizzando il valore probatorio astrattamente riconoscibile al connotato della sistematicità (Cass. pen. IV, 20.6.2022, n. 33976, in Guida dir., 2022, p. 38). Di conseguenza il requisito della commissione del reato nell'interesse dell'ente non avrebbe richiesto una sistematica violazione di norme antinfortunistiche, essendo ravvisabile anche in relazione a trasgressioni isolate se altre evidenze fattuali dimostrano il collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell’ente (Cass. pen. IV, 24.3.2021, n. 12149, in Guida dir., 2021, p. 20).

A tutto ciò, come si diceva, la sentenza in commento aggiunge considerazioni che lasceranno il segno in giurisprudenza, poiché indicative un approccio metodologico che non rende affatto scontata la presenza dell’interesse dell’impresa rispetto ad un infortunio contestato a titolo di colpa.

Così, si stabilisce che per poter accertare l’interesse occorre guardare «la finalità che muove il reo e non alla oggettiva attitudine del reato di concretizzare un’utilità per l’ente. Sicché è al reo che occorre guardare per accertare se quell’elemento ricorre nel caso concreto». Se ne deve inferire, che secondo la Cassazione, la sussistenza di un interesse per l’ente va accertato andando ad approfondire la finalità perseguita dall’autore del reato, fattore che in una fattispecie colposa non è affatto scontato, essendo al contrario tale concetto finalistico più facilmente ricollegabile, per sua natura, ai reati dolosi, vale a dire a tutte le altre fattispecie previste dal D.lgs. 231/2001.

Questo significa che in ipotesi di reato colposo, come in quello in esame, si dovrebbe accertare l’interesse perseguito dal datore di lavoro nel violare le procedure di sicurezza previste nel DVR, nel POS, nonché nel Modello organizzativo (che dovrebbe rimandare al DVR per quanto riguarda la prevenzione dei reati colposi), il che potrebbe non essere agevole neppure sul piano logico, atteso che si tratta di eventi non voluti per definizione, dovuti a imprudenza, negligenza, imperizia e violazioni di regole di condotta specifiche.

Sotto questo profilo, correttamente è stata annullata la sentenza d’appello laddove «parla di 'interesse economico perseguito dall’ente', nonché di 'preciso interesse dell’ente appaltante a ridurre l’impegno di spesa', mostrando un ennesimo errore interpretativo».

Più plausibilmente si sarebbe potuto parlare di vantaggio per l’ente, inteso come utilità che l’ente ricava dal reato commesso, per esempio adducendo un risparmio di tempo o di costi dipendente dalla violazione delle procedure, che per assurdo, nel caso specifico, vengono considerate come implementate per quanto concerne strettamente quelle in materia di sicurezza sul lavoro, mentre non è stato chiarito -rileva la Cassazione- il momento di adozione del Modello organizzativo, nonostante la sua potenziale efficacia esimente da qualsiasi responsabilità della Srl ricorrente, tratta a giudizio.

La decisione impugnata, per la Corte Suprema, oltre ad essere ritenuta vuota di contenuto, è da considerarsi errata dal punto di vista giuridico laddove lascerebbe intendersi che l’idoneità o la non idoneità del modello di organizzazione e di gestione previsto dal D.lgs. 231/01 debba valutarsi non con riferimento a quanto concretamente previsto dal documento stesso, bensì con riguardo alle condizioni di lavoro effettivamente riscontrate in cantiere, pertanto senza analizzare quanto ivi contenuto in termini di prevenzione dei reati della specie di quello contestato; quasi a voler ritenere che poiché il fatto si è verificato, il modello è inidoneo per forza di cose.


3. Considerazioni di sintesi

Nel complesso la sentenza sin qui commentata, sotto diversi aspetti consente di sperare nei suoi effetti futuri, i quali potrebbero rappresentare l’alba di un'impostazione più equilibrata e garantista nell’accertamento della responsabilità colposa delle varie risorse coinvolte nella catena della sicurezza.

Se l’obbligo di vigilanza dell’imprenditore non può essere perennemente pedissequo, non è neppure ipotizzabile che una nomina ben scritta di un preposto adeguatamente formato oppure il conferimento di una delega funzionale sollevi il soggetto apicale da ogni obbligo di controllo e, quindi, da ogni responsabilità.

Il concorso causale della vittima nel reato colposo, nel caso di condotta abnorme del dipendente, tale da mandare esente da responsabilità il datore di lavoro, si configura solo in casi estremi, di condotta imprevedibile in quanto esorbitante rispetto alle mansioni affidate, capace di interrompere il nesso causale poiché frutto di una causa sopravvenuta, innescante un nuovo iter eziologico, che provochi un rischio diverso rispetto a quello originario, connaturato ai lavori svolti.

L’accertamento della corresponsabilità dell’ente non può incentrarsi sulla mera verificazione del reato ascritto alla persona fisica, dovendosi invece verificare la presenza di tutti i requisiti di legge, senza confondere il tipo di organizzazione richiesto alla persona giuridica con gli obblighi datoriali in materia di sicurezza e ponderando concretamente il vantaggio (meno l’interesse) tratto dall’ente rispetto alla commissione del reato.


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