Attualmente in Italia pubblici ministeri e giudici fanno parte dello stesso ordinamento giudiziario e le loro carriere non sono separate. Essi possono invertire i loro ruoli, cambiando la propria funzione entro alcuni limiti quantitativi e territoriali. Pertanto, accade sovente di vedersi giudicare da un magistrato che si era conosciuto in precedenza come pubblico ministero in un altro processo. Può capitare anche il procedimento inverso, ma è meno frequente, poiché il ruolo di giudice penale è più ambito.
Tra poco sarà riproposta la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, alla quale probabilmente seguiranno enormi proteste sul piano politico e scioperi indetti dai sindacati di categoria.
Comunque vada l’iter parlamentare di questa proposta, c’è un aspetto sul quale non si dovrebbe fare confusione: da circa 80 anni il pubblico ministero è del tutto svincolato da qualsiasi sottoposizione al Ministero della Giustizia o all’esecutivo e nessuna proposta di legge intende modificare questo schema, che spesso viene agitato solo per creare confusione.
Le ragioni prospettate a sostegno della separazione delle carriere muovono dalla necessità che il magistrato giudicante sia terzo e imparziale tanto rispetto al rappresentante della publica accusa quanto a quello della difesa: se «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale», (art. 111 della Costituzione italiana), le diverse parti dovrebbero godere di parità di armi e dignità. Quando si parla di parità si fa riferimento alla fase del giudizio davanti al giudice, posto che nessuna parte privata può pretendere di essere dotata delle stesse prerogative di un pubblico ministero nella fase delle indagini (perquisizioni, sequestri, intercettazioni, interrogatori ecc.). Inoltre si sostiene che la separazione delle carriere tra giudici e publici ministeri sia più rispondente al rito accusatorio, adottato in Italia nel 1988, nel quale il pubblico ministero, nella fase del giudizio, dovrebbe stare un gradino sotto al giudice, allo stesso livello del difensore.
Coloro che si oppongono alla proposta sostengono che essendo il pubblico ministero un magistrato, egli non tutela gli interessi di un cliente, bensì quelli della collettività e dello Stato: egli avrebbe come unico obiettivo quello di punire il vero colpevole del reato e non quello di far condannare comunque l’imputato. Pertanto non vi sarebbe alcun bisogno di inserirlo in un nuovo ordine giudiziario, diverso dal giudicante. Si sostiene, inoltre, che l’appartenenza di tutti i magistrati ad un unico ordine giudiziario, con possibilità di invertire i ruoli (secondo i limiti stabiliti) darebbe un maggiore equilibrio ai rappresentanti delle due categorie, consentendo ai promotori di giustizia di sollevare imputazioni solo in presenza di elementi sufficientemente solidi e a richiedere misure cautelari solo di fronte ad indizi ed esigenze obiettive, che il giudice potrebbe meglio apprezzare.
In mezzo a questa fisiologica divergenza di opinioni, si discute se anche la formazione delle diverse categorie di giuristi, compresi gli avvocati, debba essere comune o se, invece, anch’essa debba seguire strade diverse, come in Italia avviene da sempre tra avvocati e magistrati.
Sicuramente ogni soluzione comporta vantaggi e svantaggi. Per il vero, in un processo di parti, anche le sensazioni e le apparenze assumono significato perché spesso riflettono la realtà. Troppe volte si vedono giudici e pubblici ministeri andare a tavola insieme durante la pausa pranzo di un processo, intrattenere rapporti o assumere atteggiamenti che consentono quantomeno di dubitare della imparzialità del giudicante.
Non sarà l’eventuale riassetto della magistratura a risolvere il problema della giustizia penale in Italia, già leggermente riformata di recente, ma tra le due soluzioni ritengo preferibile la separazione delle carriere, fermo restando un pubblico ministero del tutto svincolato dal potere esecutivo.
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